La mia professione di Counselor attiene alla relazione di aiuto.

Per essere un counselor occorre studiare e molto, apprendere tecniche e nozioni, fare esercizi e non esperimenti sul campo, essere supervisionati costantemente.

Per essere un Counselor invece è indispensabile, oltre a tutto il resto ovviamente, una semplice dote di inestimabile valore: il cuore.

Ieri in una seduta mi è capitato proprio questo. Una donna della mia stessa età, 57 anni, divorziata con un’unica figlia scomparsa alla tenera età di 12 anni a causa di una terribile malattia che io, purtroppo, ben conosco. Si sente sola, vorrebbe un po’ di pace e serenità, mi chiede aiuto, sento che è molto adirata col marito, che non si è mai occupato della figlia gravemente malata. Durante la seduta percorriamo insieme il suo vissuto, i punti cruciali, la sofferenza e il dolore immensi di fronte a ciò che per un genitore è l’insensatezza più grande: la perdita di un figlio. Condividiamo il suo vissuto, ci commuoviamo insieme, lascio libero sfogo al suo parlare, commento poco, a volte sono seria, a volte le sorrido dolcemente in modo compassionevole.

Termina la seduta, questa donna minuta e indifesa mi ringrazia commuovendosi ancora, mi dice che tornerà a parlare con me, e io in quel preciso momento penso che il counseling a volte è miracoloso, che è una professione utile e che mi reputo fortunata ad esercitarla.

Passano pochi minuti dopo che è uscita dal mio studio e all’improvviso mi sorprende con un messaggio sul cellulare. Non sono le parole che ho detto o lo spazio che le ho lasciato, il mio assoluto non giudizio, la mia empatia, il mio sguardo amorevole, o le tecniche di counseling utilizzate, ma una semplice carezza sul suo viso che le ho donato in un momento particolare della seduta:

“Grazie! Tengo cara la tua carezza… mi ha fatto sentire viva dopo tanto, tanto tempo…”